The Wait – Giornata Qualunque, successo della Compagnia Aleph

2702

Applausi a scena aperta per l’ultimo lavoro dell Compagnia, andato in scena al Teatro dell’Orologio a Roma

di Francesco Paniccia

locandina Aleph 2015La nuova produzione della Compagnia Aleph, in scena l’1 e il 2 luglio al Teatro dell’Orologio, si è conclusa tra gli applausi del pubblico e l’entusiasmo che da sempre accompagna i grandi eventi di portata internazionale. Una performance di teatrodanza che conferma lo spessore della coreografa dell’Aleph Paola Scoppettuolo, capace di creare opere in cui danza e verbo si fondono con rara, incisiva coerenza. Le due coreografie, assai diverse per struttura e qualità gestuale, sono in realtà complementari e costituiscono un “unicum” concettuale. Protagonisti della riflessione di Paola Scoppettuolo sono i temi dell’attesa, della vita, del tempo. Sullo sfondo campeggiano il vuoto dell’assenza, l’alienazione e la morte. Il collante è l’Eros, in tutte le sue implicazioni carnali e propulsive. L’elemento erotico è presente in quasi tutti i lavori della Scoppettuolo, utilizzato sia come motore del pensiero che come entità sensuale e vivificante dell’azione; sensibile “medium” fra la dimensione terrena e quella trascendente.
Nove le danzatrici in scena, nella suggestiva cornice della Sala Moretti. “Sold out” in entrambe le repliche, con spettatori costretti ad occupare spazi altri rispetto a quelli deputati.

THE WAIT – 1° tempo – vanta debutti importanti al Teatro Greco di Roma e al Petruzzelli di Bari ed è un lavoro totalmente incentrato sull’attesa. Un’attesa sentita, mossa dalle logiche del fare e pertanto carica di aspettative. Una sospensione inquieta destinata a schiacciarsi tra le pieghe dell’indifferenza e dell’ostracismo. Tra gli elementi costitutivi del lavoro è l’immagine dell”ombra”, ossia la proiezione dell’uomo sulla terra. Quest’ultima conferisce all’individuo una terza dimensione, l’anfratto per le sue paure ed i suoi demoni. Alter ego, antagonista, archetipo potente. L’ombra è il buio della coscienza ma è anche quel fertile sottosuolo da cui l’individuo risorge dopo la caduta. Una dimensione profondamente umana, dunque. Citando Jung: “il contatto con l’ombra è necessario per individuarsi, perché veniamo in empatia con una parte molto profonda di noi stessi”. Quando non riusciamo più a trovarla significa che la sospensione è terminata e con essa è terminato l’uomo, nella sua dimensione finita almeno. Tutto ciò che avviene tra la scoperta della propria ombra e la sua scomparsa è “Attesa”. Un’attesa che, in The Wait, diviene progressivamente più angosciante [in realtà io non posso più aspettare, è il disperato urlo di una delle ragazze]. Geniale questa coreografia di Paola Scoppettuolo, così come la successiva, entrambe frutto d’un intenso percorso culturale, un profondo lavoro sul gesto ed una viscerale autoanalisi.

GIORNATA QUALUNQUE (An ordinary day) – 2° tempo – è un trilogia di danza e parole su Fuga, Gavotta e Largo di Bach. In essa vengono analizzati tre momenti di una giornata qualsiasi: mattina, pomeriggio e sera. Essi sono scanditi da sentimenti e gestualità diverse e da una caratterizzazione, in termini di danza, delle tre età della vita. In questo lavoro la componente femminile e la tensione erotica toccano punte di pathos vertiginoso, acuite dal rigore e la severità dei tempi “bachiani”. L’insofferenza del risveglio, gli obblighi e le difficoltà della vita produttiva, le sensuali e sfatte solitudini della sera. Tre età nelle quali la nascita e il nutrimento esperienziale dell’infanzia, i travagli della vita adulta ed il lento, voluttuoso incedere verso la follia, sono espresse con spietata lucidità. Tre momenti caratterizzati da tre tipologie di oggetto: nove tazze da colazione, nove rossetti e nove paia di scarpe con tacco. Oggetti capaci di contenere, dipingere, innalzare. Il “Tempo” è l’anima della performance. Identificato da Paola Scoppettuolo come l’unica cosa che l’uomo possiede realmente [“il tempo è l’unica cosa che abbiamo”], esso è protagonista di un momento teatrale assai intenso all’interno della performance. Il suo flusso dinamico aleggia sino alla fine, fino alla drammatica, collettiva salita e discesa dai tacchi, cui segue una spossata alterazione di coscienza in tutte e nove le donne. Anche qui il gesto è profondo, vivo, originale. E poi c’è Bach. Un Bach che dona la sua voce a tanta inquietudine, apparentemente lontana dalla sobrietà e l’intensità dei suoi precisi equilibri formali. Un Bach che si tinge dei colori rossi del sangue, che veste i panni sporchi dell’uomo, che raccoglie il sudore e le colate di trucco. Un Bach che ci dice un’altra verità, capace di commuovere più che in una sala da concerto, o in una chiesa.

La coreografa dell’Aleph è un’artista autorevole, tra le poche a fare vera ricerca nel campo delle arti performative. Come fu un tempo per Pina Bausch, ella riceve ispirazione da un serrato conflitto tra gli opposti. La lotta tra fragilità e forza, fra particolare e universale, fra complessità e semplicità, tra caos e armonia. Analogamente alla geniale coreografa del Tanztheater Wuppertal, il gesto di Paola Scoppettuolo ha una forte riconoscibilità ed è la perfetta sintesi tra elementi apparentemente antitetici distillati in movimenti profondi, unici, esatti. In una sola parola: “veri”. E il nutrito pubblico del Teatro dell’Orologio tutto questo lo ha applaudito e, forse, anche un po’ capito. Chapeau!