Le due città di Priamo. Omero nel Baltico, le rovine di Schliemann e la tela di Penelope

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Uno dei più antichi ed importanti dibattiti della cultura occidentale, la questione omerica, si è ulteriormente riacceso in questi ultimi tempi in seguito sia alle nuove indagini archeologiche di alcuni ricercatori tedeschi sul sito delle rovine scavate da Schliemann in Turchia, sia in seguito alle rivoluzionarie conclusioni raggiunte da Felice Vinci che sposta geograficamente e cronologicamente l’ambientazione dei poemi omerici, non più nel Mediterraneo del 1200 a. C. ma nella Scandinavia del 2000 a. C. Se fra gli stessi archeologi più tradizionalisti c’è ancora chi dubita che le rovine di Hissarlik possano appartenere alla Troia dell’età ellenistico-romana (e men che meno alla Ilio omerica), dall’altro versante le ricostruzioni di Vinci hanno destato sia apprezzamento e interesse ma anche critiche e contrarietà. In questo articolo si propone una terza via, non certo come comodo compromesso per accontentare tutti, ma come seria analisi sulla travagliata composizione dell’Iliade e dell’Odissea nel corso di almeno un millennnio.

di Ignazio Burgio

Istoria, il vocabolo greco che significa “storia”, sotto il punto di vista filologico deriva dall’unione di altri due termini: istos ovvero “tessuto” (o ancor meglio “tela”) e reo, cioè il verbo “scorrere”, in questo caso nel senso di “filare per tessere” (una differente interpretazione etimologica che lo fa derivare da histoor, cioè “testimone” o “giudice” non è da preferire in quanto istoria è una parola chiaramente composta, e caratterizzata dalla “omicron” e non dalla “omega”). Similmente al lavoro delle proprie donne ai telai, per i greci arcaici che cominciarono a coniare i concetti ed i termini astratti da consegnare ai propri discendenti – e alla civiltà occidentale – la storia era sostanzialmente un intreccio di vite e vicende di uomini, città, e popoli “tessute” più dal Fato e dagli Dei che dalla volontà umana. Anche le tetre Parche, signore appunto del Fato, dipanavano come un filo la “storia” di ogni mortale fino all’imperscrutabile decisione di reciderne la vita.
Ma se la storia di popoli e città, come la vita degli uomini, era un intreccio fino a formare un tessuto, esso poteva venir simbolicamente “dipanato” in forma di poesia cantata dagli aedi o rapsodi come Omero. E’ significativo che il termine greco rapsodos derivi dal verbo raptein, ovvero cucire: questi cantori, tramandavano, ma anche rimaneggiavano unendo canti e miti differenti (chiedendone aiuto alla Musa !) la memoria storica collettiva in un’epoca di generale analfabetismo, in cui ancora pochi conoscevano nel mondo greco le prime forme di scrittura – come la cosiddetta lineare B – precedenti la diffusione della scrittura alfabetica classica, dall’VIII sec. a. C. in poi. L’autore dell’Odissea in questo poema ci presenta due di questi suoi “colleghi”: Femia, cantore in mezzo ai Proci nella reggia di Ulisse, e il cieco Demodoco alla corte dei sovrani Feaci. Il primo canta del difficile ritorno a casa di molti greci dopo la caduta di Troia, oggetto di un ciclo di poemi (cosiddetti nestòi) a noi non giunti. Il cantore alla reggia dei Feaci invece dopo aver narrato della lite fra Achille e Odisseo (episodio non riportato da nessuno dei due poemi, ed altrimenti sconosciuto) racconta del famoso episodio del cavallo. E’ appunto la narrazione epica che fa Demodoco di questa storia e della caduta di Troia a commuovere Ulisse e ad indurlo a diventare a sua volta egli stesso cantore e dipanatore del filo della memoria, cominciando così a narrare le sue disavventure (libro IX).
Prima però che Omero faccia entrare in scena il suo eroe nell’isola della ninfa Calypso, nel secondo capitolo dell’Odissea riporta un celebre episodio, che come una felice allegoria rende conto del significato e della struttura dell’intero poema, oltre che rappresentare una metafora filologica del concetto di storia come azione e come memoria, come futuro e come passato. Per guadagnare tempo contro le pretese dei Proci, la moglie di Ulisse, Penelope, si impegna nella tessitura di un telo funebre da donare al suo vecchio suocero Laerte, il padre del divino Odisseo, dichiarando che avrebbe fatto la scelta di un nuovo sposo una volta terminatolo. Com’è noto, durante la notte tuttavia disfa tutto quanto ha filato di giorno, in maniera da ingannare i pretendenti e dare il tempo al proprio amato marito di fare ritorno. Se l’Iliade è il poema del destino ineluttabile al quale sono assoggettati gli eroi come Achille, Ettore e la medesima città di Priamo, il secondo poema è invece meno pessimista concedendo ad ogni mortale la possibilità di lottare contro le avversità, disfacendo la trama luttuosa della sorte contraria con l’aiuto della propria astuzia, della propria versatilità (polùtropos, attributo di Ulisse) ed ovviamente anche dell’aiuto dei numi favorevoli: Atena, Apollo, Ermes, e via dicendo. Ma la tessitura diurna di Penelope è anche metafora – come si è detto – della storia agita, vissuta, e intrecciata con quella di altri uomini e città. Viceversa la sua nascosta e più importante attività notturna è sinonimo non solo della narrazione rapsodica della storia ri-vissuta con la parola, ma anche della struttura medesima del poema, quasi un avvertimento dello stesso Omero ai suoi lettori, che di lì a poco si cimenterà con i ricordi dello stesso Ulisse, in una narrazione all’interno della narrazione, ovvero con quello che oggi noi chiamiamo in termini cinematografici, “flash-back”.  

Una questione sorta già nell’antichità

Come giustamente hanno fatto notare gli studiosi, l’Odissea è infatti un’opera atipica, non solo fra i due poemi attribuiti ad Omero, ma all’interno del panorama di tutta la letteratura greca. Gli scrittori greci amavano redigere anche i trattati storici in una forma unitaria, lineare e progressiva. Il poema di Ulisse è invece suddiviso in tre parti principali: le ricerche di suo figlio Telemaco, le disavventure dell’eroe per il suo ritorno in patria, e la lotta contro i Proci una volta giunto ad Itaca. E all’interno di questi tre blocchi principali, non mancano naturalmente excursus, flash-back, protagonisti improvvisamente “messi in pausa” per dar voce ad altri personaggi e narrare altre vicende. Più che l’Iliade, l’Odissea è l’opera che – all’interno della millenaria “questione omerica” – confermerebbe quanto sostengono i critici definiti “analitici”, ovvero la nascita di tali opere ben prima di Omero – se mai realmente esistito – tramite la progressiva giustapposizione di singoli racconti tramandati in forma orale da generazioni di cantori, che celebravano individualmente le gesta di questo e quell’altro eroe (De Romilly, 1998).
Che la gestazione dei due poemi omerici abbia attraversato in origine una fase di composizioni orali sembra accertato anche da molti elementi interni al loro stile, come le ripetizioni di appellativi, frasi fatte, modi di dire identici in ogni parte dei due poemi (“Aurora dalle rosee dita”, “il mare color del vino”, ecc.). E del resto un lungo lasso di tempo di almeno cinque secoli – dal 1260 a. C. (o giù di lì) fino all’VIII sec. – separarono secondo gli stessi scrittori antichi la Guerra di Troia dal periodo in cui visse il misterioso Omero; dunque impossibile non pensare ad una trasmissione orale delle due epopee precedentemente alla loro prima stesura scritta avvenuta forse proprio nello stesso periodo dell’adozione della scrittura alfabetica da parte dei Greci, ovvero proprio nell’VIII sec. a. C. Secondo il parere degli studiosi “neoanalitici” visse realmente in Asia Minore un poeta, o un gruppo di poeti, che in quel periodo si preoccupò di selezionare, ordinare, rielaborare ed infine fissare su papiro in forma coerente ed unitaria la gran massa di storie circolanti sulla guerra avvenuta cinque secoli prima e sulle disavventure occorse ai protagonisti principali dopo la caduta della città (fra le quali ultime, unica opera sopravvissuta fu quella dedicata appunto ad Ulisse). In questa maniera le città elleniche poste sulla sponda egea dell’Asia Minore (Mileto, Samo, Rodi, ecc.) intendevano mantenere e rinsaldare anche culturalmente i legami con la loro madrepatria di origine, così come una ulteriore stesura in forma scritta per ordine di Pisistrato ad Atene nel VI sec. a. C. si svolse in concomitanza con la conquista dell’Ellesponto da parte del tiranno ateniese: la possibilità di controllare l’accesso al Mar Nero, al suo grano ed ai suoi ricchi mercati doveva essere degnamente celebrato nella città della dea Atena, patrona di Ulisse. I redattori incaricati da Pisistrato tuttavia non si astennero dall’effettuare ulteriori rielaborazioni ed aggiunte, come si ha prova nel caso ad esempio di un capitolo dell’Iliade, il X, dove si parla della spia troiana Dolone scoperta e uccisa da Ulisse e Diomede. Ma le manomissioni del testo tuttavia non cessarono nemmeno dopo tale data, e nel corso dei secoli successivi, diversi critici e letterati, il più noto dei quali fu Aristarco di Samotracia (216 a. C. – 144 a. C.) rimaneggiarono più volte i due poemi. Si ritiene che solo negli ultimi due secoli prima dell’era cristiana venne definitivamente fissato il testo di entrambi i poemi, quello che sostanzialmente possiamo leggere ancora oggi: si può spiegare così ad esempio come nell’Iliade il dio fabbro Efesto costruisca robot dorati (autòmati, nel testo greco), sia in forma di oggetti (tripodi) sia sotto forma di ancelle da cui viene servito come fossero schiave, suggerendo che tale descrizione venne aggiunta negli ultimi secoli prima dell’era volgare, quando simili meccanismi pieni di ingranaggi venivano costruiti dagli scienziati alessandrini Erone e Ctesibio (Burgio, 2006).
Nonostante tuttavia i secoli di riedizioni, correzioni, rielaborazioni e sistemazioni varie, tanto l’Iliade quanto l’Odissea risultano ancora pieni di incoerenze, contraddizioni ed anacronismi geografico-temporali. Non si comprende ad esempio perché nell’Iliade una sfida a singolar tenzone tra Paride e Menelao nel canto III venga ripetuta fra due diversi contendenti, ovvero Ettore e Aiace nel canto VII, come se la prima non fosse mai avvenuta. Ed ugualmente ci si chiede perchè sempre nell’Iliade Achille nel canto XVI confidi in una ambasceria da lui precedentemente rifiutata. Un personaggio, Pilemene nel canto V del poema troiano rimane ucciso, ma nel XII torna a vivere, mentre al contrario il muro edificato dagli Achei a difesa del proprio campo figura nei canti VII e XII ma scompare nel resto dell’Iliade.
Le maggiori perplessità tuttavia riguardano gli elementi dell’ambiente in cui si svolge l’azione in entrambi i poemi, poiché tanto i critici antichi quanto quelli contemporanei sono unanimi nell’affermare che i luoghi descritti da Omero non corrispondono se non molto approssimativamente con la geografia del Mediterraneo. Il Peloponneso viene descritto come un’isola, l’Isola di Pelopo appunto, mentre sappiamo che soltanto ai nostri giorni un geografo pedante potrebbe dichiararla tale in seguito al taglio dell’Istmo di Corinto. Fino al XIX secolo – e tanto più nell’epoca di Omero ! – era saldamente unito alla terraferma, e non si capisce neppure perché venga descritto sostanzialmente pianeggiante dal momento che è talmente montuoso che molte regioni interne ancora fino a qualche secolo fa restavano isolate per le difficoltà dei collegamenti. Identico discorso vale per Itaca ritratta con caratteristiche differenti dall’isola greca bagnata dal Mar Ionio. Anche le distanze relative tra i differenti luoghi geografici appaiono spesso incoerenti: l’Isola di Faro è proprio a ridosso della costa egiziana, ma già Strabone nel I sec. a. C. si domandava perchè nell’Odissea si afferma che ci vuole un’intera giornata di navigazione, col vento buono, per raggiungerla dall’Egitto. Il clima poi appare differente da quello solare e mediterraneo che esisteva anche al tempo di Omero: nei due poemi il mare viene rappresentato opaco “del colore del vino”, i guerrieri combattono spesso al freddo e talvolta devono vedersela con la neve e il ghiaccio. Più che nel Mediterraneo, l’Iliade e l’Odissea sembrano ambientati in un altro contesto geografico, ad una latitudine più settentrionale.

Omero nel Baltico

Felice Vinci, guidato da alcune significative testimonianze storiche, come quella di Plutarco che localizzava Ogigia, l’isola della ninfa Calipso, nell’Atlantico settentrionale, non esita ad affermare che la guerra di Troia e le disavventure di Ulisse siano accadute in realtà tra il Baltico ed il Mare del Nord. E non nel 1200 a. C. bensì intorno a mille anni prima, nel 2200 o giù di lì. Trasportata con l’immaginazione tutta la scenografia dei poemi omerici in quel contesto geografico, molte stranezze contenute nei loro versi non appaiono allora più tali: il clima più freddo, il mare brumoso, i guerrieri pesantemente vestiti, e via dicendo. Anche la grande battaglia combattuta ininterrottamente per due giorni di seguito senza alcuna pausa per la notte verrebbe spiegata dalle giornate estive molto lunghe e dal sufficiente chiarore che si ha nelle ridotte ore notturne a quelle latitudini. Ma Vinci ha anche identificato precise corrispondenze tra le descrizioni geografiche presenti nei due poemi e molte località dei Paesi Baltici. Così il Peloponneso appare realmente un’isola pianeggiante, cioè Sjaelland, la maggiore delle isole danesi dove adesso sorge anche Copenhagen; nei pressi, l’isola di Lyo corrisponde in maniera ben precisa con la descrizione che fa Omero di Itaca, mentre anche l’omonima isoletta di Faro, a nord della grande isola di Gotland che si trova ad una certa distanza dalle coste della Lettonia e della Polonia (identificabile forse con l’Egitto), poteva costituire l’omerica isola di Faro, ad una giornata di navigazione. La vera guerra di Troia sarebbe stata combattuta dunque in realtà dagli antenati degli Achei omerici, ovvero dalle genti scandinave fino all’incirca al 2000 a. C. (o giù di lì) ancora stabilmente residenti nel Baltico.
In questi ultimi decenni infatti, in seguito a nuovi studi archeologici e linguistici, la tradizionale teoria della provenienza dei popoli indoeuropei da Oriente (dalle regioni del Caucaso e del Mar Caspio) ha perso sempre più terreno a favore dell’idea di una comune origine scandinava (Louth, 1996). Come viene fatto notare dallo stesso Vinci, fino all’incirca al 2000 a. C. la temperatura media del nostro pianeta era più alta di quella attuale, secondo alcuni ricercatori degli anni ’70 come Godwin, anche di 2 gradi in più rispetto a quella moderna. Le ricerche paleobotaniche compiute anche a ridosso del circolo polare – in Canada, Norvegia, Siberia, ecc. – hanno accertato per quel periodo (definito “optimum climatico”) l’esistenza anche alle alte latitudini, di un tipo di vegetazione che in tempi successivi, anche quelli più caldi come il nostro, si ritrova soltanto a latitudini molto più basse. Fino a 4000 anni fa nelle regioni dove ancora adesso ci sono solo le conifere o addirittura la tundra, si trovavano boschi di querce, noccioli, larici, ecc., ed i progenitori degli antichi greci micenei vivevano e prosperavano in una Scandinavia che come clima assomigliava più all’Inghilterra e alla Francia settentrionale che non a quella alla quale siamo abituati oggi (Le Roy Ladurie, 1980). Dovevano lavorare il bronzo, percorrere il mare (anche al di fuori del Baltico) con le loro veloci navi, antenate dei drakkar vichinghi, e praticare gli scambi da una sponda all’altra e da un’isola all’altra. In realtà di essi non si sa molto, per mancanza sino ad ora di sufficienti campagne di scavo, ma certamente al seguito dei loro sovrani (analoghi ai “wanax” micenei) dovevano scendere frequentemente in guerra, come i greci del Mediterraneo.
Secondo Felice Vinci tra le genti delle due sponde del Baltico, attualmente quella danese-svedese e quella della Finlandia per intenderci, vi era una particolare ostilità che si concretizzò prima del 2000 a. C. in una guerra di grande portata. I sovrani di diverse isole e regioni radunarono le loro navi ed i loro guerrieri, proprio come si legge nell’epica greca, ad Aulide, in realtà nella baia di Norrtälje sulla costa occidentale dell’attuale Svezia, e da lì veleggiarono verso la costa opposta. Obiettivo era una cittadina attualmente nell’entroterra della Finlandia, che 4000 anni fa si trovava però in prossimità del mare. Quella località esiste ancora e porta il significativo nome di Toija. Secondo Vinci sarebbe stato in realtà un insediamento di medie dimensioni, in legno secondo il tipico stile nordico-scandinavo e non la grande città in stile miceneo immaginata da Omero. Anche il muro di cinta sarebbe stato in realtà una palizzata di legno e pietre.
Al pari dell’Iliade, anche il poema di Odisseo avrebbe avuto come scenario la Scandinavia ed il Mare del Nord: così ad esempio i giganti Lestrigoni ed il Ciclope Polifemo avrebbero abitato la Norvegia settentrionale dove le leggende nordiche localizzavano i mostruosi Troll; l’isola del dio Eolo andrebbe da ricercarsi in una delle Shetland, dove tradizionalmente le donne anziane vendevano ai marinai fazzoletti annodati con spago per “governare” i venti e scongiurare le tempeste; ed il pericoloso passaggio tra Scilla e Cariddi non sarebbe naturalmente lo Stretto di Messina (analogia apparsa sempre troppo esagerata), bensì il fenomeno vorticoso del “Maelstrom” nel mare di Norvegia.
Intorno al 2000 a. C. poco dopo la guerra contro Toija ed il travagliato ritorno in patria di Ulisse, il clima peggiorò in tutto il pianeta. Probabilmente anche con la complicità della caduta di un meteorite nel Golfo Persico e di ripetute eruzioni del vulcano Campi Flegrei nel Golfo di Napoli, le temperature medie discesero all’incirca di un paio di gradi specialmente nel nostro emisfero, ed il Baltico fu soggetto ad un clima ancora più gelido di quanto non lo sia oggi. Analogamente a quanto poi avrebbero fatto 3000 anni più tardi i loro discendenti vichinghi e variaghi molte delle genti scandinave decisero di lasciare la propria terra d’origine, ma non per motivi di esplosione demografica come nel medioevo, dal clima tornato relativamente più caldo, bensì per l’impossibilità di coltivare una terra gelida. Diffusisi a ondate successive in tutta Europa e per mezza Asia fino in India alla ricerca del caldo sole (e delle ricchezze delle città che incontravano per via) assoggettarono le popolazioni di molte regioni europee ed asiatiche dando origine alle culture indoeuropee come tradizionalmente si conoscono. Ma i Greci Achei e Micenei fecero anche qualcos’altro: spinti dalla nostalgia, assegnarono ad ogni regione del Mediterraneo che toccavano con le loro navi il nome di qualcuno dei paesi che avevano lasciato sul Baltico, cercando di ricostruirne la geografia, anche al prezzo di qualche forzatura. Ecco perchè il montuoso Peloponneso fu equiparato alla pianeggiante “Isola di Pelope”, ovvero la Sjaelland, e l’Isola di Faro, quasi attaccata alla costa egizia, venne descritta lontana una giornata di navigazione.

Toija e Wilusa

Apprezzate anche all’estero, non solo, come ci si potrebbe aspettare, nei paesi Scandinavi, ma anche negli Stati Uniti dove vengono studiate nelle Università americane, le conclusioni di Felice Vinci tuttavia non hanno però mancato di suscitare anche molte critiche e contrarietà. Il motivo non è soltanto la tradizionale diffidenza del mondo accademico verso tutte le teorie nuove e rivoluzionarie, ma anche le ben più concrete testimonianze archeologiche. Specialmente nell’Iliade, Troia viene descritta in maniera ambivalente, ora come una città semplice e arcaica, ora invece dotata di grandi palazzi in stile miceneo, larghe vie, templi e possenti strutture fortificate. Anche se molti studiosi concordano che Omero abbia lavorato certamente di fantasia attribuendo alla Ilio di cinque secoli prima molte caratteristiche delle città greche dei suoi tempi, tuttavia perlomeno fino all’imperatore Giuliano (361 – 363 d. C.) una città chiamata Troia esisteva realmente sui Dardanelli, finché non decadde e di essa non se ne perse anche l’esatta localizzazione. Ma i 9 strati di antiche rovine dissotterrate a partire dal 1870 sulla collina di Hissarlik in Turchia e tutto il paesaggio circostante sembrano corrispondere sufficientemente alla Ilio della tradizione antica nonché alla descrizione omerica, anche se la topografia della città scoperta da Schliemann non coincide proprio esattamente con quanto riportato dall’Iliade. Tuttavia i resti degli edifici, dell’Acropoli e delle mura degli strati VI e VII risalgono proprio al periodo tradizionalmente associato dagli antichi scrittori greci con la guerra contro la potente Ilio. La città dello strato VI (1800 – 1300 a. C.) sembra essere stata danneggiata da un terremoto, ma quella di pochi anni dopo, risalente al 1260 a. C., la VII/a, riporta i segni di un possibile assedio e una successiva distruzione: si hanno infatti tracce di un improvviso aumento di popolazione, dell’ammassamento di grandi scorte nei magazzini e di un successivo incendio. Gli abitanti a cui appartengono i resti ritrovati sembra siano morti assassinati, così come riportato dall’epica.
Fino ad alcuni anni fa anzi sembrava che la città riportata alla luce, pur dimostrandosi più grande, solida e meglio fortificata della Toija di legno identificata da Vinci, fosse più piccola di quanto non la descrivesse l’Iliade. Ma negli ultimi decenni le nuove indagini archeologiche e geologiche di Korfmann e Kraft hanno potuto accertare che i resti trovati da Schliemann sono in realtà quelli dell’Acropoli, la cittadella fortificata. Oltre le mura si estendeva tutto il borgo residenziale e commerciale facente capo al porto i cui resti probabilmente sono ancora da identificare con l’aiuto della geologia. Si è anche appurato che la linea costiera era molto differente da quella attuale, e prima che nel corso dei millenni il fiume Scamandro colmasse coi suoi sedimenti i bassi fondali, il mare si insinuava in prossimità delle attuali rovine. Kraft avrebbe anche identificato il luogo dell’ormeggio delle navi greche ed il muro fatto costruire da Nestore a difesa del loro accampamento. Anche le datazioni al radiocarbonio C14 collimano con il contesto storico ed archeologico, nonostante non manchino anche all’interno degli stessi studiosi tedeschi opinioni contrarie, come quella di Frank Kolb, per il quale le rovine di Hissarlik non possono essere quelle di una grande città commerciale come la Ilio omerica, ma al massimo quella di una piccola fortezza che dominava sull’area rurale circostante. (Giorgetti, 2003; Sindici, 2010).
Tuttavia l’esistenza e la potenza della grande città di Priamo posta a guardia dei transiti commerciali sui Dardanelli, tra Mediterraneo e Mar Nero, sarebbe anche confermata da altre fonti antiche. Intorno al 1200 a. C. i testi Ittiti documentano la presenza di una importante città nella regione di Arzawa, ovvero l’odierna Turchia occidentale. Il nome di questa città era Wilusa, foneticamente simile ad Ilio dunque, il suo sovrano era Alaksandu che nei poemi omerici (nella forma grecizzata di Alessandro) era un secondo nome di Paride. Essa inoltre risultava contesa tra l’Impero Ittita che occupava anche quasi tutta l’Asia Minore, e i sovrani di Ahhijawa, termine col quale molto probabilmente gli Ittiti designavano la sfera d’influenza anche marittima degli Achei. Insomma se l’ambiente mediterraneo nei poemi omerici risulta contraddittorio ed incoerente tanto da rendere più convincente la ricostruzione di Felice Vinci, non così sembra per la città di Priamo, molto più simile alla Ilio/Wilusa dei Dardanelli che alla Toija baltica. Dove sta allora la verità ? Come spesso accade non è escluso che possa appartenere ad entrambi i punti di vista, e può venir adeguatamente rappresentata dalla metafora della tela di Penelope.

Due nomi, due città?

Omero ed i suoi predecessori cantori amavano tessere abilmente le loro storie, specialmente quando queste venivano tramandate oralmente, intrecciando sul telaio della propria cetra, leggende, folklore, racconti di marinai con i miti degli dei e degli eroi. Ma qualsiasi tessuto ha bisogno di almeno due tipi di fili: la trama e l’ordito. I poemi omerici – come abbiamo avuto modo di vedere – sono pieni di elementi doppi: vi sono duelli che si ripetono identici per due volte; vi sono personaggi con due nomi differenti, come Paride/Alessandro; e vi è una medesima città scenario, ma con due nomi diversi: Troia (Toija ?) e Ilio (Wilusa ?). Viene spontaneo immaginare che questi due nomi identifichino in realtà due città differenti, e due guerre differenti, con vicende simili ed esito analogo, ovvero l’incendio e la distruzione della città assediata a lungo. E magari con due gruppi di sovrani, eroi, personaggi distinti, fusi e confusi poi nel corso dei secoli in un’unica grande vicenda epica. Due nomi, due città differenti oggetto di due guerre distinte combattute a mille anni di distanza l’una dall’altra: nel 2200 nel Baltico contro Tojia, l’altra nel 1260 a. C. contro Ilio sui Dardanelli. La prima combattuta dagli antenati scandinavi in un mondo socio-culturale più semplice potrebbe anche aver avuto in questione, come suggerito anche da Vinci, proprio una bella donna, vittima forse di una razzìa da parte dei baltici dell’odierna Finlandia ai danni dei loro avversari della sponda opposta, le attuali coste della Svezia e delle isole danesi: tutti i residenti di quel versante, chi più chi meno con qualche conto in sospeso, avrebbero allora deciso di fare causa comune per dare una severa lezione, una volta per tutte, ai “Tojiani” e ai loro alleati.
L’altra guerra venne invece combattuta mille anni più tardi contro la Ilio di Schliemann, dai lontani discendenti di quei proto-indoeuropei scandinavi dopo le loro ripetute migrazioni verso il sud e l’Egeo. La ricca città anatolica in quei mille anni era risorta più volte sulle proprie ceneri, tornando alla vita e alla prosperità commerciale dopo i danni ripetutamente provocati da invasioni nemiche, incendi e terremoti. La concorrenza navale che sicuramente esercitava con la sua potente flotta in tutto l’Egeo e la sua posizione strategica a guardia dei Dardanelli, controllando il passaggio marittimo verso il Mar Nero, e fra l’Asia Minore e l’Europa, rappresentavano una spina nel fianco per l’espansionismo commerciale e militare degli Achei Micenei. Questi del resto già controllavano Rodi ed il prospicente litorale dell’Asia Minore, e commerciavano proficuamente con tutto il Mediterraneo, fino alla Spagna. Ilio/Wilusa era però spalleggiata dal potente impero Ittita che si estendeva per quasi tutta l’Anatolia, e dunque era impossibile attaccarla. Anzi intorno al 1300 a. C. gli Ahhijawa/Achei d’Asia vennero sconfitti e resi vassalli dal sovrano di Hattusas Mursili II (Levi, 2004). Ma quando la decadenza travolse l’Impero Ittita poco tempo dopo, per i greci micenei venne il momento opportuno e liberatisi dal protettorato anatolico sbarcarono sui Dardanelli assediando la grande città di Priamo, ancora con i segni di un recente terremoto. Secondo un’interessante tesi, la città sarebbe stata presa nascondendo dei guerrieri achei nelle ceste trasportate da una carovana di cavalli e destinata al rifornimento dei troiani assediati: di qui la leggenda del cavallo (Enrico Pantalone)
Anche la guerra contro Ilio/Wilusa agli aedi micenei dovette sembrare memorabile e degna di essere tramandata fino a fonderla con l’altra impresa di cui serbavano ancora memoria, quella avvenuta mille anni prima nel Baltico. Le rielaborazioni successive hanno poi praticamente reso estremamente difficile distinguere scenari e personaggi appartenenti alle diverse epoche.

Dall’Oriente mediterraneo i discendenti dei bellicosi scandinavi di Grecia appresero molte cose che li trasformarono nei padri di tutta la civiltà occidentale. Dai Fenici mutuarono la scrittura alfabetica, e questa, perfezionata con l’aggiunta delle vocali dell’alfabeto ebraico, permise ai poeti-cantori di raffinare e trascrivere la loro lingua in una forma talmente “musicale” al cui confronto tutte le altre lingue del mondo sembravano agli stessi greci, sforzi di balbuzienti, o, in greco antico, “barbaroi” (dal verbo: barbaroo, io balbetto). Sicuramente è anche per questo che leggendo il testo greco dell’Iliade e dell’Odissea sembra di sentire ancora il suono della cetra di Omero.

La redazione di Terra Incognita ringrazia Ignazio Burgio ed il sito di Catania Cultura per la concessione dell’articolo.