E’ uno dei film più belli e poetici della fantascienza in celluloide, ma il suo vero autore non figura nei titoli di testa
di Luigi Cozzi
Curiosamente, una delle opere migliori realizzate da Jack Arnold non porta il suo nome. E la pellicola che diresse subito dopo Tarantola… un film di cui nessuno sa che è lui in realtà il vero regista: This Island Earth (Il cittadino dello spazio), prodotto a colori e con grandi mezzi dalla Universal tra il 1954 e il 1955. La trama di quest’opera, una vera e propria saga galattica d’estrema spettacolarità, ci porta in una villa isolata negli Stati Uniti (la stessa usata in Tarantola), dove alcuni emissari del misterioso pianeta Metaluna raccolgono i maggiori scienziati terrestri per farli lavorare a quello che viene presentato come un progetto pacifista. In realtà, contano di avvalersi delle loro scoperte nella disperata guerra che stanno conducendo contro il Popolo delle Meteore, dall’altra parte della Galassia. Quando uno dei terrestri scopre I’inganno, il piano dei metaluniani viene a cadere e questi lasciano la Terra. La villa viene distrutta, i terrestri uccisi da raggi della morte, e gli unici due scienziati sopravvissuti vengono caricati a bordo di un gigantesco disco volante che si lancia nello spazio in direzione del remoto Metaluna. Attraversato l’universo, il disco giunge alla fine sul pianeta, ma ormai la civiltà dei suoi abitanti è in agonia: le Meteore stanno annientando Metaluna. I terrestri possono perciò solo assistere alla fine di quella civiltà. Il capo dei metaluniani che li ha accompagnati si offre di aiutarli a rientrare sulla Terra, e li riporta a casa, poco prima di inabissarsi in mare col suo disco volante, mentre Metaluna si trasforma in un sole che infonde calore ai mondi vicini, dando inizio a un nuovo ciclo di vita.
Più che un film tecnologico, Il cittadino dello spazio è un film poetico sullo spazio e il cosmo. Tutta la vicenda e trasfigurata in chiave delirante, onirica (mentre per esempio il pianeta proibito sfoggia un freddo realismo scientifico), in un gioco di colori pastello, con forti dominanti verdi. Così, gli effetti speciali appaiono totalmente irreali e “inventati”: lo spazio è colmo di nubi gialle e vapori rossastri, le meteore sfrecciano nella notte tra bagliori accecanti, Metaluna muore avvolto in una notte viola, dove solo di tanto in tanto spiccano lampi verdi o gialli: una tela fantastica! This Island Earth rimane un film essenzialmente visivo, immaginifico. Comunque, This Island Earth è e rimane prevalentemente un film poetico. Semplice, talvolta elementare, ma efficace. Così, quando nel finale il disco volante di Exeter inizia la lunga, folle carrellata sul mare (un anticipo dell’indimenticabile, delirante “carrello” conclusivo di 2001) prima di inabissarsi,lo0 spettatore avverte qualcosa, un’impalpabile sensazione: ci si sente commossi.
Per la parte tecnica, ricordo che fotografia ed effetti speciali recano la firma di un illustre specialista, quel Clifford Stine che ha collaborato anche a Destinazione…. Terra, Terremoto, Tarantola, Nel tempio degli uomini talpa, II terrore sul mondo, La mantide omicida, King Kong, II mistero della piramide, Ricerche diaboliche e Radiazioni B.X.: distruzione uomo. La supervisione delle musiche si deve a Gershenson, che ha curato quelle di pressoché tutti i film della Universal e ha prodotto film come L ‘uomo senza corpo, Ricerche diaboliche e The Leech Woman. A creare il “trucco” delle fronti altissime dei Metaluniani e della testa da gambero del “mutante” provvede Bud Westmore, uno specialista che ha lavorato a tanti film di fantascienza e del terrore, tra i quali il mostro della Laguna Nera, il culto del cobra, Passi nella notte, La vendetta del mostro e Tarantola.
I due protagonisti del Cittadino dello spazio sono poi autentici “specialisti”. II metaluniano Exeter è infatti interpretato da Jeff Morrow che, nato nel 1916, abbiamo anche in Il terrore sul mondo, Il mostro dei cieli, Kronos il conquistatore dell’universo. L’attrice principale é invece Faith Domergue, nata nel 1925, che fu lanciata dalla Universal con una grande campagna pubblicitaria rimasta però senza frutto. E’ anche in Il mostro dei mari, Sette secondi più tardi (dal romanzo L’uomo isotopo di Charles Eric Maine), House of the Seven Corpses, Il culto del cobra e nel bizzarro Voyage to the Prehistoric Planet che Roger Corman e John Sebastian hanno girato nel 1965 valendosi in gran parte di sequenze tolte di peso dal film russo I sette navigatori dello spazio (1962), lo stesso dal quale Peter Bogdanovich (Targets, L ‘ultimo spettacolo, Paper Moon) prese nel 1968 altre sequenze per completare il suo esordio alla regia, Voyage to the Planet of Prehistoric Women.
E’ anche curioso notare come il ruolo del gelido Monitore sia interpretato da Douglas Spencer, che nel 1950 era apparso in La cosa da un altro mondo nei panni del vulcanico e simpaticissimo giornalista “Scotty”. Con queste due caratterizzazioni fantascientifiche tanto diverse, Spencer fornisce un’indubbia dimostrazione di versatilità.
Il montaggio è di Virgil Vogel, un tecnico d’origine europea diventato regista con film come Nel tempio degli uamini talpa, Prigionieri dell’Antartide, Sword of Ali Baba, Son af Ali Baba e il curioso Invasion of the Animal People (noto anche come Terror in the Midnight Sun) ambientato in Scandinavia.
Il produttore è William Alland, ex-attore del gruppo di Orson Welles (è il reporter nel capolavoro Quarto potere/Citizen Kane) in seguito diventato produttore per la Universal. Ha più volte dichiarato di aver finanziato tutti i film del suo periodo “orrido-fantascientifico” solo per venire incontro alla Universal, e ha aggiunto di disprezzare del tutto la science fiction.
La regia, infine, e firmata da uno specialista di western, Joseph Newman.
Ma Jack Arnold, chiederete voi, che c’entra visto che il film risulta diretto da un altro? Be’, la risposta è semplice: in realtà, più di metà del film (la seconda parte, per la precisione) è stata girata appunto da Arnold. Come e perché, ve lo spiego ora.
Il film prende spunto da una serie di romanzi brevi che Raymond F. Jones aveva pubblicato sulla rivista americana Thrilling Wonder Stories, poi nel 1953 riuniti in un volume intitolato This Island Earth. Una piccola compagnia cinematografica indipendente di Hollywood, la Sabre Productions, ne acquistò i diritti e affido la trasformazione del romanzo in sceneggiatura a Edward G. O’Callaghan, autore di diversi film “gialli” della serie dedicata a Charlie Chan. O’Callaghan eliminò molti dei concetti più “intellettuali” di Jones che a suo parere non si prestavano alla trasposizione cinematografica, e la Sabre scritturò come regista il veterano di pellicole western Joseph Newman: la fantascienza era considerata un genere tipicamente d’avventura, e quindi un regista di film d’azione secondo loro era l’ideale. Poi, si mise a offrire il “pacchetto” (sceneggiatura e regista, cioè) a varie case di distribuzione di Hollywood, sperando di trovarne una disposta a finanziare la pellicola. La Universal, che aveva ottenuto grandi successi coi film in bianco e nero diretti da Jack Arnold e prodotti da William Alland, fece un’offerta. Dopo l’ottima resa economica di pellicole come Il mostro della Laguna Nera e Destinazione… Terra, voleva infatti tentare un “salto di qualità” investendo capitali maggiori per film di fantascienza più spettacolari, nella speranza che anche i guadagni si sarebbero moltiplicati. E siccome non aveva ancora trovato un soggetto idoneo, acquistò il progetto offertole, che sembrava adatto allo scopo.
Non fidandosi troppo della Sabre, affidò tuttavia il film a un produttore di sua fiducia, appunto William Alland. Come regista confermò invece Newman perché, se I’avesse rifiutato, avrebbe dovuto pagarlo comunque, e in più avrebbe dovuto pagarne un altro (quello nuovo). Fu così che Newman diresse Il cittadino dello spazio, che altrimenti la Universal avrebbe affidato a Jack Arnold senza la minima esitazione. Ma…
Ma quando la copia appena montata fu mostrata ai dirigenti della Universal, questi rimasero costernati dal risultato: la pellicola mancava totalmente di quel fascino arcano e misterioso che caratterizzava tutti i loro film (quelli diretti da Arnold, almeno… ). Di conseguenza, dopo riunioni tempestose, e siccome rifare per intero il film sarebbe costato una fortuna, si optò per una soluzione di compromesso: la prima parte, quella ambientata sulla Terra, fu mantenuta come I’aveva girata Newman. La seconda sezione, invece, che comincia quando il disco s’alza in volo dal suo nascondiglio dentro la collina e si conclude col suo ritorno alla Terra dopo la fantastica galoppata nell’infinito, fu messa in cantiere di nuovo: in altre parole, gli attori vennero richiamati sui set e quella mezz’ora e più di film venne rifatta da capo. E a dirigerla fu chiamato Jack Arnold, il cui contributo costituisce senza dubbio la parte pili bella del Cittadino dello spazio.
Fu proprio Arnold, tra l’altro, su insistenza della Universal, a inserire nella vicenda il “mutante-mostro” che alla fine cerca di uccidere i protagonisti, una figura non compresa nella versione realizzata da Newman. E, sebbene questo alieno sia inserito visibilmente a forza nella trama, tanto per potervi includere “almeno un mostro”, Arnold lo sfrutta magistralmente per creare alcune brevi sequenze di grande suspense. II cittadino dello spazio è rimasto I’unico film a colori prodotto dalla Universal in quegli anni perché, malgrado il grosso investimento, non ottenne poi un incasso di molto superiore alle altre produzioni più economiche realizzate in passato, e pertanto si decise che non era il caso di insistere su quella strada, tornando all’antico. E infatti i titoli dei due film in bianconero realizzati subito dopo sono più che eloquenti: Nel tempio degli uomini talpa e La mantide omicida.