PROLOGO DEL MERIGGIO
Il Djenoun che per primo tirò il “sasso” nel grande mare planetario, restò punito, perché i cerchi concentrici che ne scaturirono, irradiandosi, procurarono la prima inarrestabile inondazione, che a sua volta, mise in movimento tutte le acque, e che infine scatenò il Diluvio. Era bastata la forza propulsiva di quel gesto per dare origine al moto e ad imprimerlo all’universo. A far sì che Ouzzal, la primeva acqua sorgiva, riversandosi nell’alveo dell’avito fiume, fluisse indisturbata fino alla conclusione del primo ciclo evolutivo della sua esistenza cosmica.
Protesa verso quell’impossibile meta, che pure le consentiva la purezza incontaminata, nonché la percezione nascosta e il contatto sensitivo, Ouzzal sopravvisse a lungo, ignara dell’originario ordito che le negava di violare l’arcano principio della fecondazione profonda. Allorché, profanato il segreto abissale della sua natura, intraprese la sua avanzata fin dentro le mirabili sfere della luce, onde giammai avrebbe dovuto propagarsi, pena il prosciugamento, la seccura, la desertificazione.
Convinta di non essere uguale a nessuna altra oggettiva consistenza, Ouzzal si ritrovò in breve prosciugata dell’umida linfa che segretamente aveva custodito per lunghissimo tempo, e nulla poté contro il primitivo fuoco del Sole nascente, predestinato fra gli astri, a regnare grandioso su tutto il creato. Finché, della sua liquida essenza non rimase che un’esile traccia, che le permise di riversarsi nei solchi profondi dell’oblio. E solo più tardi, di riemergere dall’arida seccura, nelle segrete guelte del Tutto.
A nulla sarebbe occorso il tentativo di appropriarsi della dinamica del moto, se i Djin dispettosi, non avessero ripetuto, di quando in quando, e seppure per gioco, il fatidico gesto di gettare un minuscolo granello di sabbia nelle acque specchiate del cielo, che le avrebbe permesso di raggiungere il fiume del ricongiungimento. Non v’era in seno alla Grande Notte alcuna certezza di un suo possibile ritorno, eppure ciò accadde, allorquando, varcata la soglia di un ultimo ciclo evolutivo, Ouzzal cosparse la sua liquida essenza sulla faccia desolata della Terra, tramutandola in un’oasi lussureggiante di vita.
Da allora, un tenue vapore lontano, azzurro e dorato, talvolta si leva dal suolo fin dentro il cielo sospeso, dando luogo a una “visione”, o forse a una “speranza”, frutto dell’immaginazione, che le genti del deserto comunemente chiamano El – serab – quell’astrazione della mente inaridita che pur vive nel ricordo di un qualcosa che è stato, o che forse, non avrebbe dovuto essere mai; specchio dove ognuno infine riconosce la propria fuggevole immagine, riflessa entro un’aura dorata, un miraggio destinato presto a scomparire.
OUZZAL
“Taalol taalaangol taalteengol . . .” – la storia ch’è stata narrata e che dev’essere narrata ancora – disse il Silatigi, quando sul finire del giorno, mi accolse fra i suoi adepti nella Prima Radura. . .
Il sole già dissipava le ombre, e per la prima volta dall’inizio del viaggio intrapreso attraverso il Sahara, provai l’insolita sensazione di camminare nel vuoto assoluto. La distesa sabbiosa mi apparve allora in tutta la sua esasperante essenzialità, uno spazio sconfinato che superava ogni mia immaginazione. Un luogo estremo, sospeso fra ciò che realmente era e una realtà “altra”, che i miei sensi provati non riuscivano tuttavia ad afferrare.
Lo scenario, al contrario di tanti luoghi comuni, era al dunque molto diverso da quello che avevo sempre pensato che fosse, un “vuoto” caratterizzato dalla solitudine e dalla malinconia. Sebbene “. . . la malinconia presupponeva la memoria, mentre persino la memoria qui tendeva a scomparire”, attratta da una metafora ancora più potente del “vuoto”, quella del “fuoco”, che riscaldava gli animi e li purificava, facendo ardere le passioni umane.
Quegli animi che, rispondendo alla seduzione del fuoco, ne restavano per sempre segnati. “Il mondo è cominciato col fuoco e probabilmente finirà nel bagliore delle fiamme”, era scritto, e mi convinsi che solo allora, forse, ci saremmo avvicinati all’incontaminata uniformità del “nulla”, o forse del “tutto”, se la dimensione onirica del “tutto” commensurata al “nulla”, possa servire a formulare qualcosa che abbia un senso.
Neppure le orme appena lasciate sulla sabbia sarebbero rimaste di lì a poco a testimoniare la nostra presenza in quei luoghi. “Il vento le avrebbe cancellate restituendo al deserto l’incorruttibile integrità dell’eterno”, pensai, allorquando, in quel nulla apparentemente immobile, eppure grandioso, catturai ciò che neppure la fantasia avrebbe potuto catturare: il passaggio di una lunga meharea scomparsa nel tempo, un’interminabile processione di uomini e di animali che avanzava lenta dentro lo specchio riflesso del presente, balenata per un istante nella luce accecante del sole.
Un miraggio vibrante e ossessivo, colto nell’abbagliante astrazione della luce, dentro il quale s’impose l’irriducibile presenza del mito, retaggio di un’inconscia memoria senza volto a simulare il ritorno di perdute deità solari, informi e corrose, avvolte nell’abbraccio segreto del tempo. Un coro vibrante di voci si levò dalle sabbie roventi, contrassegnato da ancestrali echi e vuoti silenzi, che giunse alle mie orecchie, portatore di un linguaggio arcano che non potevo conoscere, e che, soprattutto, non m’era dato comprendere.
La sosta forzata che seguì, servì a interrompere la simultaneità di quella visione, allorché Hassan, la guida Tuareg che accompagnava la spedizione, mi raggiunse e mi versò sul capo parte dell’acqua contenuta nella ghirba, per farmi riprendere dallo stordimento che mi aveva colpito. E sebbene ognuno dimostrasse una certa preoccupazione per il mio improvviso malessere, non si poté ulteriormente prolungare la sosta, poiché, nonostante ci fosse ancora molta luce, un momento dopo il calare del sole sarebbe stato subito buio.
Il tramonto gettò un riflesso purpureo nel cielo facendoci dono di uno spettacolo grandioso di colori che misero in movimento quella vasta distesa ch’era il deserto davanti e intorno a noi. Un oceano di dune colore dell’oro, di infinite distese pietrose, di altopiani sconfinati e di massicci lontani che si dissolvevano nella bruciante calura del deserto. Un deserto, il Sahara, ch’era solcato un tempo da laghi e corsi di fiumi oramai prosciugati, verdeggiante di boschi di querce e di tigli, di ulivi e alberi da frutto, di méssi e di fiori multicolori che risplendevano sotto un sole certamente più mite, in cui verosimilmente si erano sviluppati i primi agglomerati umani e si erano insediate le prime popolazioni nomadi.
Ciò era accaduto molto tempo prima della sua definitiva desertificazione, prima che i grandi eventi geologici sconvolgessero il delicato equilibrio ambientale che l’uomo aveva indubbiamente cercato e in qualche modo stabilito con la natura dei luoghi. Erano passati millenni da allora, eppure avrei volentieri fermato la corsa fuggevole del Tempo e soffermarmi, almeno per un istante, a cogliere l’estensione meravigliosa della bellezza “assoluta” del Tutto che si mostrava ai miei occhi. Pur sapendo che mai ciò sarebbe stato possibile, se non nell’unico modo che conoscevo per farlo, ed era di fissarlo nello spazio “atemporale” del sogno.
Chiusi gli occhi andando a ritroso, alla ricerca della memoria ancestrale del mondo, di quel trapassato remoto che certo avevo dimenticato, seppure nell’incertezza di poterlo stringere tra le mani e riconciliarlo col presente. Un gioco che facevo spesso da ragazzo, ché lo scorrere inarrestabile del Tempo era un altro dei miei numerosi interrogativi che da sempre teneva sospeso il mio cuore, ancor prima di consegnarsi integro allo stupore del creato. Tuttavia senza riuscirci.
Ci provai ancora e lentamente la visione, che pure avevo avuto, s’indebolì per poi svanire del tutto, lasciando solo immagini imperfette al limite della mia incoscienza. Con l’avanzare dell’età la mia capacità di sognare a occhi aperti, propria della velleità giovanile, era dunque svanita per sempre, tuttavia, e quando li riaprii, mi accorsi che non era rimasto niente dell’implacabile bagliore del giorno, che già le ombre si facevano insidiose ai confini dell’orizzonte e intorno a noi. Quando finalmente avvistammo un’oasi lontana.