Quaderno Uno – NEFER

PROLOGO DEL MATTINO
L’incontro sarebbe certamente avvenuto se, ad un immanente desiderio di luce, fosse corrisposto il disegno tangibile di una qualche predisposizione celeste. Se, a un certo momento, l’universo tutto fosse stato cosparso dei tepori e dei profumi che avrebbero reso leggiadro l’idillio. Solo allora ciò sarebbe potuto accadere, allorquando Nefer, fulcro della suprema bellezza, avesse assecondato il sorgere della cosmica armonia.
Certo, si sarebbe dovuta ordinare ogni cosa ancor prima del suo nascere ancestrale, tracciare la linea apparente dell’Orizzonte, immaginare l’arco luminoso del Sole, designare le fasi alternate dell’argentea Luna; dare all’aurora la trasparenza dell’aere, le ombreggiature violacee dell’alba, le sfumature dorate del giorno, le coloriture vermiglie del crepuscolo, la superba oscurità della notte, onde sostenere Nefer , durante il suo mirabile levarsi.
Sarebbero occorsi sconvolgimenti più che straordinari, concatenazioni imprevedibili, in cui gli astri avrebbero dato moto al “moto”, al duplicarsi dell’istante astrale in molteplici istanti, e alle tremule stelle, con le loro molteplici configurazioni zodiacali, allorquando un nuovo ciclo evolutivo avrebbe dato inizio alle stagioni, al giorno e alla notte, al succedersi delle ore, dei minuti, degli attimi di cui ha forma il Tempo.
Una nobile aspettanza dunque, quella che Nefer riversava nel cielo della Grande Notte, ammirevole per la segreta cura con cui attendeva alla sua purificazione, la magnificenza con la quale predisponeva ogni cosa, ogni suo vago intendimento, proporzionatamente, circolarmente, simultaneamente, entro le virtuali combinazioni della perfezione e del sublime, quasi il suo incontro stesse ogni qual volta sul punto di accadere.
Come di un’alba in procinto di levarsi e che mai si leva, Nefer non fu mai, o forse sempre, consunta nell’attesa estenuante del suo interminabile divenire. Fu dapprima l’orgoglio, il desiderio avito, la segreta ambizione, allorché, attraversato il cielo dell’immaginario, divenne l’infinità, l’astrazione, il conturbante sogno. Fin quando, sospinta verso la propria sorte terrena, divenne la fiamma che avvampa, l’impeto furente, il veemente amore.
Null’altra cosa Nefer sarebbe diventata, se non quello che da sempre desiderava con ardore, e che la spingeva oltre la certezza della propria esistenza: entrare nell’empireo dei primordi, nel pieno sfolgorio della Luce. Ciò che una segreta istanza fissava entro un “tempo fermo” che allontanava il momento della sua spettacolare entrata nel cosmo, e che le negava di far parte della natura divina del Tutto.
E indugiò a lungo, dacché all’attesa iniziale ne seguì un’altra estenuante, infinita, pur senza fiaccarsi mai, di quella che fu la segreta ansia del suo morire, e la manifesta speranza del suo fulgente rinascere. Chi mai avesse avuto modo si scorgerla, l’avrebbe veduta attraversare fuggevole lo spazio celeste degli albori, al pari di una cometa impazzita, persa nel vortice tumultuoso della sua folle corsa alla ricerca di quelle qualità astratte che pure componevano il vuoto primordiale.
Sì, Nefer avrebbe atteso ancora a lungo la sua straordinaria ascesa cosmica, fino al sorgere del Tempo, fino a che l’aura divina avesse acceso il cosmico universo, e gli astri avessero preso il loro volteggiare lento. Allorché abbandonata nello splendore che la bellezza emana, si assopì leggiadra nel nimbo numinoso dell’eterno. Fin quando un’alba dorata, limpida e pura, precipitata dentro il mistero del presente, si levò, per la prima volta, sopra le acque inondatrici del Nilo.

NEFER
“Desiderava  il  mio  cuore  vedere  la  bellezza  di ciò .   .   .”

. . . allorquando, sospinta dal vento, la feluca sollevò un mormorio dell’acque e i papiri frusciarono sommessi sulla vicina sponda, come un insieme misterioso di “voci”, simile a lamento di supplici, che improvviso si levò e aggiunse una vaga inquietudine allo scorrere lento e maestoso del Nilo. Approdai in una lieve insenatura sabbiosa coperta di giunchi e canne piumate, e allorché disceso, mi soffermai ad ascoltare quel remoto lamento che il vento ben presto disperse dentro un tranquillo incolmabile silenzio.
In quel medesimo istante, un ibis sacro solcò il cielo di una sottile linea azzurra e si spinse lontano, nei luoghi che per primi accolsero il loto odoroso, emblema dell’amore supremo, e la ninfea bianca, simbolo dell’opalescente bellezza, che un tempo avevano rischiarato la cosmica armonia. Nell’immanenza di quella visione, una sorta d’amoroso afflato sospinse il mio sguardo verso la sfera raggiante del sole, e in quello sfolgorio di luce, in cui la concretezza infine scolora, ogni altra cosa si disperse nello smalto splendente dell’aere, come immagine che improvvisa si sfoca.
Come se quel momento appartenuto all’eterno, ad esso facesse ritorno, entro una metamorfica luminescenza che indicava nell’astro del Sole il corpo visibile di Râ, la sua germinazione, la sua veemente creazione, nel divenire ciclico del Tempo. Râ, che la divina madre Nut ascosa nella notte del cielo, faceva rinascere ogni giorno alla vita e lo restituiva alla Terra in tutta la sua fulgente bellezza:

.   .   .
Lode a Te Amon – Râ signore di Karnak.
Principe in Tebe.
.   .   .
Lode a Te, che sollevasti il Cielo
e distendesti la Terra.

Più in là, superata la striscia lussureggiante della vegetazione, il Nilo proseguiva il suo viaggio lento e possente entro gli argini di un presente solo apparentemente senza memoria. Là, aveva inizio il Sahara, un continuo cromatico di sabbia ricco di sfumature contrastanti: dal verde intenso delle ultime terre coltivate, all’ocra bruciata delle dune, all’oro pallido delle colline calcaree, al bruno rossastro dei massicci montuosi che sullo sfondo, costituivano le estreme propaggini di un improbabile orizzonte.
Vi giungevo sospinto dal desiderio di ampliare la mia conoscenza attorno a quella lontana civiltà sorta sulle sponde di quel fiume, che tanto mi aveva affascinato, quando ancora studente, ne avevo sentito per la prima volta il poderoso richiamo, e che mi aveva portato a tessere di sogno l’illusione di poter giungere, un giorno, alla sua piena identificazione . Un sogno che molte volte mi ero trovato a sollecitare, e che adesso, per un’apprezzabile ordinanza del destino, si rivelava così prossimo alla grandezza dello spirito, da rendermi incapace, quasi, di apprezzare quanto di meraviglioso mi era dato osservare.
Riflessa nello specchio appena increspato dalla corrente, la feluca sospinta dal vento, si allontanava leggera sul filo dell’acqua, scomposta in una doppia immagine riflessa, mentr’io, per una qualche inspiegabile concomitanza, con lo sguardo, l’una non ancora lasciavo che l’altra coglievo. Come se il presente, non fosse altro che un effimero contemplativo in cui ritrovavo ciò che era l’oggetto del mio desiderio, e il futuro fosse di fatto compreso nel passato che apparteneva ormai alla memoria. Ma tutto ciò non durò che un attimo, il tempo necessario a fermare la sua fuggevole visione dentro un battito del cuore.
Chi mai può dire se stiamo andando oppure tornando dall’eterno oblio?
Mi chiesi, pur sapendo che qualunque fosse stata la risposta in quel momento, avrebbe suscitato in me soltanto un altro possibile dubbio, un’ulteriore inquietudine, e non la cercai. La mia feluca veleggiava leggera lungo il più generoso dei fiumi, e io la conducevo oltre quel lontano orizzonte d’acqua, per la durata incommensurabile di un abbaglio:

.   .   .
Salute a Te, o Nilo che sei uscito
dalla Terra
i prati ridono, le rive fioriscono
gioiscono gli uomini
il cuore degli dèi si esalta.
.  .  .
Tu che la Terra adorni
prospero è il Tuo venire, o Nilo!

E come in un sogno ove ogni cosa si specchia e si moltiplica, vidi rifulgere i primevi bagliori d’ogni Sole, la bianca opalescenza d’ogni Luna, i cieli che erano e che sarebbero stati sempre, le acque già defluite che sarebbero tornate a scorrere ancora, le sabbie incontaminate dei primordi sollevarsi nel turbinio del vento –  quasi che l’essenza della vita nel suo fluire cosmico, facesse ritorno entro le spire dell’eterno.

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