Le ricerche di alcuni climatologi hanno condotto alla scoperta di una grave condizione di siccità nel Mediterraneo orientale intorno al 1200 a. C. che può certamente spiegare il collasso di città e civiltà dell’epoca.
di Ignazio Burgio
Nel 1966 lo studioso Rhis Carpenter suggerì nel suo libro “Clima e storia” l’ipotesi che uno dei tanti enigmi della storia antica, l’improvvisa fine della civiltà micenea intorno al 1200 a. C. fosse strettamente correlata ad una fase di prolungata siccità in Grecia. I secchi venti desertici del Sahara, secondo lo storico, si sarebbero spostati verso nord, prosciugando oltre la penisola ellenica anche Creta e l’Asia Minore, e dunque portando al collasso oltre che i regni micenei, anche l’impero anatolico degli Ittiti. Come tutte le teorie pionieristiche ed in anticipo sui tempi, le sue affermazioni vennero rifiutate oltre che da storici ed archeologi anche dai climatologi, all’infuori di uno sparuto gruppo di ricercatori: Reid Bryson, Don Donley e Hubert Lamb. Negli anni ’70 questi studiarono i sistemi di circolazione meteorologica nel moderno Mediterraneo sia in condizioni normali che in anni eccezionali, come il biennio 1954-55 caratterizzato da una forte siccità nel Peloponneso ed in Turchia, ed, al contrario, da un clima favorevolmente più umido nella regione di Atene e nella Grecia settentrionale. La colpa di questa situazione anomala, relativamente agli anni ’50, fu da imputarsi ad una persistente condizione di bassa pressione ed annesso clima piovoso sul Mediterraneo occidentale, ed un’alta pressione, con tempo più caldo e secco, sul versante orientale (Fagan, 2005).
La fine delle civiltà del bronzo
Le scarse testimonianze scritte della fine del II millennio a. C. e soprattutto i dati paleoclimatici ricavati ad esempio dall’analisi dei pollini, confermano la possibilità che un’analoga situazione meteorologica possa essersi verificata anche a quell’epoca compromettendo le produzioni agricole in Grecia e altrove e dunque portando al collasso parecchi regni e città. Alla fine del XIII secolo i potenti Ittiti dell’Anatolia soffrirono una grave carestia che li indusse a spostare il baricentro del loro impero verso la Siria dove le piogge non mancavano ed i raccolti erano più abbondanti. Ma ciò non fu sufficiente ad impedire la disgregazione dello stato in diverse regioni autonome in conflitto con l’autorità della corona fino all’incendio della stessa capitale Hattusa nel 1180 a. C. Sorte analoga ebbero certamente anche le città-stato micenee della Grecia centrale e del Peloponneso la cui scarsa agricoltura di sussistenza a cui erano abituati in tempi normali risultò impossibile da praticare in quelle condizioni di ripetute siccità. Nemmeno i loro traffici commerciali per tutto il Mediterraneo riuscirono più a procacciar loro sufficienti derrate e si ridussero alla fame. Le tracce di incendi e distruzioni che contraddistinguono la fine delle città più importanti come Micene, Pilo e Tirinto fanno pensare a guerre intestine a scopo di saccheggio. Ma molto probabilmente anche le stesse flotte micenee spinte dalla fame e dalla disperazione si convertirono dal commercio alla pirateria unendosi ai famosi “Popoli del Mare” per attaccare e saccheggiare le ricche regioni litoranee orientali, dalla Siria all’Egitto. Intorno al 1225 a. C. un gran numero di nomadi libici invasero una prima volta l’Egitto, ma vennero sconfitti dal faraone Merenptah. In una iscrizione coeva questi si vanta di aver ucciso 6000 nemici e fatto 9000 prigionieri. Nella medesima iscrizione si attesta che i Libici (o Libu) erano affiancati via mare da altri invasori provvisti di navi: Akawasa (Achei micenei), Tursa (Tirreni), Lukka (i Lici anatolici), Shardana (Sardi) e Shekles (forse i Siculi). Gli studiosi del clima hanno fatto notare che durante la siccità del 1954-55 in Libia cadde il 50 per cento in meno della pioggia che giunge in tempi normali. Dunque se le cose andarono in maniera analoga in occasione degli anni secchi del 1200 a. C. si può ben comprendere la disperazione che spinse quelle genti.
Questa prima sconfitta non li fermò più di tanto. Gli ultimi documenti ittiti fanno riferimento alla minaccia rappresentata dai “Shikalayu che vivono su barche”, probabilmente i medesimi Shekeles-Siculi dell’iscrizione di Merenptah. Poco tempo dopo diverse città costiere come Ugarit vengono saccheggiate e distrutte fino a scomparire dalla storia. Subito dopo è la volta di un nuovo attacco all’Egitto. Il faraone di turno, Ramses III, ricorda in un’altra iscrizione di avere sconfitto in una grande battaglia navale gli “Haunebu” come vengono da lui chiamati questi Popoli del mare, composti oltre che da Shekeles-Siculi e da Shardana-Sardi come nella prima ondata, anche da Peleset (Filistei cretesi), Danuna o Denyen (i Danai anatolici), Zeker o Tjeker (?) e Wešeš (?), questi ultimi due gruppi di incerta identificazione.
Il Mediterraneo e l’Europa prima della siccità
E’ significativo che molti dei nomi degli invasori citati nelle iscrizioni egiziane facciano riferimento a quelle zone devastate dalla grave siccità e dalle conseguenti carestie: gli Akawasa-Micenei Greci, I Peleset-Filistei di Creta, i Libu della Libia, i Lukka-Lici e i Danuna-Danai dell’Anatolia. Tutto fa sospettare che gli ex-trafficanti marittimi dei tempi più prosperi siano stati spinti dalla carestia e dalla fame a diventare pirati, depredando paesi e città che godendo di sufficienti precipitazioni piovose possedevano ancora un entroterra agricolo, un’organizzazione urbana, e strutture artigianali e commerciali.
La Grecia al tempo di Omero Nei secoli precedenti il bacino orientale del Mediterraneo era stato una ricca zona di scambi tra grandi imperi, come l’Egitto, l’Anatolia degli Ittiti, la talassocrazia minoica di Creta e Thera (Santorini), ed una moltitudine di città stato situate lungo le coste, le isole dell’Egeo e le rocciose terre elleniche. I principali prodotti di scambio erano in primo luogo quelli alimentari, cereali, olio, vino, ma anche ceramiche più o meno raffinate e decorate, per uso domestico o anche religioso e funebre, come attestato dai ritrovamenti archeologici. La merci più preziose erano tuttavia quelli in metallo, non solo gioielli in oro e argento, ma anche prodotti di rame e bronzo: armi, statuette o semplicemente lingotti di rame pronti per la lavorazione. Nemmeno la catastrofe avvenuta in tutto l’Egeo in seguito all’esplosione vulcanica dell’isola di Thera (Santorini) nel 1640 a. C. riuscì a quanto pare a danneggiare seriamente quella fitta e proficua rete di scambi. La civiltà minoica si eclissò, certamente, ma ai potenti mercanti delle isole subentrarono immediatamente quelli achei micenei della terraferma, mentre la stessa isola di Creta anche se dovette certamente ricevere un duro colpo fra danni materiali e nuovi concorrenti, riuscì tuttavia a tornare rapidamente – grazie alla sua posizione centrale – ad una certa prosperità fino alla grande siccità del 1200 a. C.
Al momento in cui le città ed i mercanti di Micene, Pilo, Tirinto e delle altre città greche arcaiche subentrarono ai minoici di Thera e Creta, si attivarono per riorganizzare in maniera razionale il commercio dei prodotti in bronzo, che, com’è noto, è una lega di rame e stagno. Se il primo dei due metalli lo si poteva ricavare da zone relativamente vicine, come l’isola di Cipro, lo stagno era necessario importarlo da fuori il Mediterraneo, dall’odierna Inghilterra meridionale, e più precisamente dalle Isole Shilley (“Isole Cassiteridi”), nei pressi della Cornovaglia. Lungo questa rotta sorsero culture in qualche modo collegate alla società micenea, ovvero quella britannica del “Wessex” e quella di “El Argar” nella Spagna del sud, intorno al nodo di transito di Gibilterra. E’ probabilmente proprio da questa zona che partì la diffusione di un tipo di calice in ceramica, il cosiddetto “bicchiere campaniforme”, che raggiunse non solo tutto il Mediterraneo, ma anche il Nord-Europa, al seguito forse di mercanti-imprenditori micenei intenti a scoprire e sfruttare nuove risorse minerarie. Un’altra importante zona di estrazione dello stagno era l’odierna Boemia che divenne ben presto anch’essa tramite la via fluviale dei fiumi Danubio e Reno, un nodo di scambio e di transito con i prodotti provenienti dal settentrione come la preziosa ambra, immancabile nelle tombe micenee.
L’Europa orientale e centrale era tuttavia stata invasa prima del 2000 a. C. da una nuova etnia, i Kurgani, da alcuni studiosi classificati come protoindoeuropei, nomadi allevatori forse anche di cavalli, costruttori di tombe “a tumulo” (“kurgan”), ed esperti nella lavorazione dei metalli: una loro diramazione insediandosi nelle regioni caucasiche diede vita alla civiltà di Kuban, dalle raffinate produzioni in bronzo. Nelle zone danubiane dell’Austria, Ungheria e Boemia assimilando le popolazioni locali diedero origine alla civiltà di Unetice.
Nel Mediterraneo uno dei nodi di scambio più importanti lungo la via tra Gibilterra e l’Egeo era costituita dall’arcipelago delle Eolie, in tempi antecedenti grande zona di produzione ed esportazione dell’ossidiana, e successivamente, con l’età dei metalli, luogo di produzione e scambio di oggetti in bronzo e ceramiche micenee (“cultura di Capo Graziano”, da una località dell’isola di Filicudi). Le ceramiche di queste isole hanno molta affinità, in questo periodo, con quelle maltesi di Tarxien ed al contempo con quelle proto-micenee (Brea p. 101-102). Un po’ tutte le aree costiere della Sicilia tuttavia erano interessate dai contatti commerciali con le diverse zone del Mediterraneo. Se nel versante occidentale dell’isola sono stati ritrovati reperti di influenza iberica, in quello orientale, specialmente nella zona del Siracusano, gli scavi archeologici hanno portato alla luce tombe, ceramiche, armi ed utensili di provenienza, o di ispirazione stilistica, sia micenea che maltese: la necropoli di Castelluccio, una località nei pressi di Siracusa, ha restituito ad esempio sette idoletti in osso, con funzioni religiose, molto simili ad altri trovati sia a Malta, che nel Peloponneso miceneo, ed infine anche a Troia (strati II-III). Anche le ceramiche sono molto affini per stile sia a quelle micenee, sia a quelle maltesi, come anche a quelle anatoliche delle regioni centrali (Kultepe, ecc.) (Brea, p. 109-110). Secondo l’opinione di alcuni archeologi non è escluso che i Greci Micenei abitassero stabilmente piccoli empori in Italia meridionale ed in Sicilia, come Metaponto, Lipari e Thapsos, anticipando così la successiva colonizzazione greca.
La siccità e le dieci piaghe d’Egitto
Cosa abbia provocato esattamente la disastrosa siccità intorno al 1200 a. C. è ancora oggetto di discussione presso i climatologi. E soprattutto è da chiarire come mai, al contrario dell’episodico biennio 1954-55, si sia protratta per 400 anni, cioè fino al IX sec. a. C., causando in Grecia quella condizione di decadenza nota come “medioevo ellenico”. Nei millenni precedenti, un’analoga situazione climatica nel Mediterraneo Orientale si era verificata tra il 6200 ed il 5800 a. C. allorchè l’ultimo residuo dell’era glaciale, la calotta di ghiaccio che ricopriva l’attuale Canada (la “Laurentide”) si sciolse in breve tempo riversando nell’Atlantico un’enorme quantità di acqua dolce. Il delicato equilibrio della Corrente del Golfo si spezzò ed il grande fiume in mezzo all’oceano si arrestò, lasciando non solo al freddo l’Europa settentrionale ma interrompendo anche l’arrivo delle periodiche perturbazioni portatrici di pioggia sul Mediterraneo orientale.
Ma nel II millennio a. C. resti di calotte glaciali al di fuori del circolo polare non ve ne erano più, ed alcuni climatologi danno la responsabilità del disastro climatico ad un altro famoso “regista” del clima globale, “El Nino”, il periodico ed anomalo riscaldamento del Pacifico vicino le coste sudamericane. Altri invece tirano in ballo anche in questo caso i vulcani, come l’Hekla, in Islanda, eruttato intorno al 1150 a. C., che se non provocato, perlomeno avrebbero aggravato le condizioni di clima secco. Tra i vulcani che modificarono con le loro emissioni l’atmosfera terrestre in quel periodo vi furono tuttavia anche il Cuicocha in Equador (eruzione di livello 5) ed il Pinatubo nelle Filippine con un’eruzione così poderosa da raggiungere il livello 6. Anche se non è possibile determinare con maggiore precisione gli anni delle loro eruzioni, il loro pulviscolo liberato nell’atmosfera, attenuando i raggi solari, ebbe sicuramente effetto sulle temperature degli oceani, sulla Corrente del Golfo ed il Nino e quindi anche sulle condizioni atmosferiche dell’intero pianeta.
Recentemente alcuni scienziati come Stephan Plugmacher, Nadine von Blohm, Siro Trevisanato, hanno sostenuto che anche le dieci piaghe del racconto biblico furono una conseguenza della disastrosa siccità che avrebbe colpito in quel periodo pure l’Egitto. Secondo la loro ricostruzione, la riduzione delle precipitazioni avrebbe ridotto anche il livello del Nilo, rendendolo più lento e fangoso, e questo avrebbe favorito la proliferazione di un’alga tossica, la Oscillatoria Rubescens, che “si moltiplica in maniera massiccia in acque calde lente con alti livelli di elementi nutritivi. E quando muore, colora l’acqua di rosso.” (Plugmacher). Questo sarebbe stato dunque il motivo per cui le acque del Nilo si sarebbero come tramutate in sangue. A causa tuttavia dell’anomala presenza dell’alga, anche le rane sarebbero state costrette a lasciare il fiume e ad invadere i centri abitati (seconda piaga), finendo però per morire ben presto, lasciando così il campo a mosche, pidocchi ed altri insetti (terza piaga) non più tenuti sotto controllo dagli anfibi, loro predatori naturali. Gli insetti avrebbero poi a loro volta diffuso malattie ed epidemie tra il bestiame e la popolazione (quarta e quinta piaga).
Anche l’ultima piaga, la morte dei primogeniti egizi, viene da questi studiosi in qualche modo ricollegata alla situazione di siccità e carestia, ovvero ad un fungo tossico che avrebbe inquinato gli scarsi primi raccolti di grano di cui si sarebbero cibati appunto i primogeniti maschi.
Per spiegare le restanti piaghe tuttavia gli stessi ricercatori hanno fatto entrare in gioco anche l’esplosione del vulcano Thera-Santorini che anche in Egitto avrebbe provocato sconvolgimenti climatici con tempeste di grandine, invasioni di cavallette e condizioni di oscurità dovuta alla cenere vulcanica (settima, ottava e nona piaga). Negli scavi archeologici in Egitto è stata effettivamente ritrovata della pietra pomice proveniente dall’antica eruzione di Thera, ma la cronologia risulta poco convincente: i vulcanologi hanno infatti accertato che la catastrofe avvenne intorno al 1640 a. C., e dunque ben quattro secoli prima della siccità del XIII secolo a. C. Se si vuole mantenere quest’ultimo scenario come sfondo delle piaghe bibliche è necessario trovare altre spiegazioni alla condizione di oscurità, come ad esempio un’eclisse totale di sole.
Siculi, Sardi, Umbri e Tirreni: i nuovi signori dell’Italia
Le critiche condizioni climatiche che misero in ginocchio l’agricoltura di intere regioni del Mediterraneo orientale, e quindi anche le civiltà micenea e ittita, provocarono anche vasti movimenti di popoli alla ricerca di terre con più precipitazioni e dunque più favorevoli ai raccolti. Buona parte dei Micenei superstiti si spostarono verso nord in Tessaglia, dove effettivamente secondo le ricostruzioni climatologiche le precipitazioni piovose rimasero sufficienti per l’agricoltura di sussistenza.
Una condizione esattamente contraria si verificò invece nelle regioni danubiane centro-orientali che soffrirono forti precipitazioni e disastrose inondazioni. Si deve molto probabilmente vedere in questo il motivo dell’improvviso passaggio dal rito funebre dell’inumazione sotto alti tumuli alla incinerazione – come procedura d’emergenza – in urne non seppellite, ma ordinatamente disposte superficialmente e ricoperte con pietre. Questi “campi d’urne”, come sono stati definiti dagli studiosi, vengono rapidamente diffusi in una vasta zona dell’Europa, segno di una fuga dei residenti della cultura di Unetice dalle zone del Danubio in piena sia verso Occidente (l’attuale Francia), sia verso la penisola balcanica, la Grecia, ed anche l’Italia. I nomi con cui sarebbero stati poi conosciuti dalla storiografia antica (una volta mescolatisi con le popolazioni locali) sarebbero stati quelli di Celti (Galli), Illiri, Veneti, Dori (in Grecia), Umbri e Latini.
Purtroppo i resoconti tramandatici dagli autori greci e latini di età posteriore sono spesso contraddittori e lacunosi e l’archeologia non ha ancora chiarito gran parte dei dubbi circa l’origine ed i movimenti dei vari popoli in quel periodo così critico. E questo ovviamente vale anche per la penisola italiana e le sue isole. Secondo le opinioni di una parte degli studiosi, Shekeles, Shardana e Tursa respinti dai faraoni egiziani insieme agli altri “Popoli del Mare” si spostarono verso occidente invadendo Sicilia, Sardegna e litorale toscano fino a stabilirvisi permanentemente. In sostanza, essi non sarebbero altro che i Siculi, i Sardi ed i Tirreni (o Etruschi) delle successive fonti greche e latine. In effetti secondo la testimonianza di Erodoto gli Etruschi o Tirreni sarebbero fuggiti dalle isole prospicenti l’Asia Minore (come Lemno) in seguito ad una grave carestia, e dopo essersi dati anche alla pirateria sarebbero approdati in Italia. Ma secondo altri autori antichi essi sarebbero giunti in Italia dal Nord (Tito Livio), o ancora sarebbero stati i discendenti autoctoni di popolazioni locali (Dionigi di Alicarnasso). Non è affatto escluso che la verità possa essere comune a tutte e tre le teorie, poiché se è vero che nell’isola di Lemno l’archeologia ha scoperto testimonianze molto affini con la cultura etrusca, è anche molto probabile che le genti umbre provenienti in Italia da settentrione (o dall’altra sponda dell’Adriatico) si fusero con le popolazioni locali ed assimilarono a loro volta gli immigrati tirreni provenienti dal mare insieme alla loro raffinata cultura orientale.
L’immagine che secondo l’archeologia e la storiografia vien fuori dell’Italia di quel periodo è quello di un gran “crogiolo” dentro cui arrivavano genti da ogni parte, da terra come dal mare, per poi mescolarsi con i popoli locali, metterne in movimento altri, e dare così origine a nuove popolazioni, nuove culture e nuove civiltà. Così come gli Etruschi, anche ad esempio i Siculi di Sicilia potrebbero essere stati il risultato non solo di un’invasione di genti umbro-latine provenienti dalla Calabria, come suggerisce l’archeologia, ma anche di invasori di origine egeo-orientale provenienti dal mare.
Anche gli Ausoni, invasori delle isole Eolie e fondatori di una nuova cultura a Lipari, potrebbero anche aver fatto parte dei “popoli del mare” (i “Weses” delle iscrizioni egizie ?) ed essere stati strettamente imparentati con i Siculi, anche perchè i loro reperti ritrovati nella maggiore isola delle Eolie risultano analoghi ad altri ritrovati nella penisola, in Puglia e sul colle Palatino a Roma. Rimane certo comunque che per invadere le Eolie dovevano essere provvisti di imbarcazioni ed avere dimestichezza con la navigazione.
Sotto la minaccia di queste aggressioni le popolazioni della costa si ritirarono allora nell’interno, sulla cima di altopiani impervi e dunque più sicuri, fondandovi anche città di cospicue dimensioni, come Pantalica e Cassibile in Sicilia (nel siracusano), di cui rimangono ancora oggi soprattutto i resti delle necropoli: migliaia di grotticelle squadrate come tante finestre una accanto all’altra sulle pareti rocciose. Gli scarsi resti di dimore civili rintracciati, come l’Anaktoron, la residenza del signore della città, presentano caratteristiche molto affini allo stile dei palazzi micenei del periodo immediatamente precedente, segno di una forte assimilazione della cultura greca arcaica da parte delle popolazioni autoctone grazie agli stretti contatti commerciali nei tempi precedenti la catastrofe climatica, e forse anche in quei tempi così poco sicuri: paradossalmente infatti la rossa ceramica diviene più bella e di migliore qualità, anche perchè lavorata al tornio, e molto più simile allo stile miceneo. Uguale discorso vale per gli oggetti metallici in oro ed in bronzo, come anelli, spade e spille per mantelli. Dal momento che i veri e propri oggetti d’importazione appaiono molto ridotti rispetto al passato, viene da chiedersi se le città (non rinvenute) a cui appartengono le necropoli di Pantalica, Cassibile, Caltagirone e Dessueri non siano state abitate anche da Micenei fuggiti dall’arido Peloponneso insieme alla propria cultura ed alla propria arte.
Gli invasori pirati Siculi riuscirono tuttavia alla fine ad impadronirsi di tutta la parte orientale dell’isola, sospingendo le popolazioni originarie, i Sicani, verso la parte centrale ed occidentale. Stranamente tuttavia i primi Siculi arrivati lasciarono ben poche tracce della propria originalità culturale – o perlomeno ben poco hanno restituito gli scavi. Una delle poche eccezioni è costituito da un gruppo di capanne nella zona dell’attuale paese di Lentini (Sr) dalle caratteristiche molto simili a quelle più antiche latine trovate sul Palatino a Roma, cosa che – sulla scorta anche della tradizione letteraria degli scrittori greci e latini – ha condotto molti archeologi a ribadire una stretta parentela tra i due popoli.
Sul Monte Caratabia a circa 3 Km dal paese di Mineo (Ct) si trovano due camere quadrangolari scavate nella roccia calcarea intorno al VII – VI sec. a. C. dove probabilmente si svolgevano cerimonie funebri per i siculi d’alto rango. Sulle pareti interne delle due grotte sono stati rinvenute incisioni raffiguranti scene di caccia: gruppi di uomini a piedi e a cavallo, accompagnati da cani, inseguono cervi e cinghiali, il tutto in uno stile essenziale e poco raffinato che ricorda i graffiti nelle grotte paleolitiche. Molto probabilmente questi reperti potrebbero costituire una testimonianza circa il livello culturale poco progredito – ancora a distanza di sei secoli dalla grande crisi climatica! – dei “siculi appenninici” veri e propri, e del sostanziale apporto culturale fornito loro dagli altri Siculi, gli Shekeles egei giunti su navi, insieme probabilmente agli Achei Micenei fuggiaschi.
Uno scenario mutato
Dopo la grande crisi climatica del XIII sec. a. C. non solo il Mediterraneo ma anche l’Europa continentale presenta profondi cambiamenti culturali. Ovunque predominano le lingue ed i costumi indoeuropei, il rito funerario della cremazione, la diffusione del cavallo come traino di carri e poi come cavalcatura, e la sempre più massiccia sostituzione del bronzo con il ferro, in primo luogo nella produzione delle armi. Tuttavia sia in Grecia come in Italia bisognerà attendere il ritorno a condizioni climatiche più favorevoli, nel IX-VIII sec. a. C., affinchè agricoltura, commerci ed espressioni artistiche e culturali possano tornare ai livelli della precedente età del bronzo. Nel Mediterraneo tuttavia, la maggiore novità dopo il 1000 a. C. a livello commerciale è costituita anche in Sicilia – a Pantalica, ma ancor più a Cassibile ed in altre località – dall’arrivo di ceramiche, bronzi e suppellettili molto simili, se non identici, ad altri rinvenuti sulle coste atlantiche di Spagna, Francia ed Inghilterra: le navi su cui giungono sono quelle dei Fenici, i nuovi signori del commercio nel Mediterraneo e nell’Atlantico. (Brea, p. 155-156). In Europa e nel “Mare Nostrum”, poco prima della diffusione del ferro, lo scenario commerciale diviene dunque quello dell’ultimo millennio prima di Cristo, sfondo dei traffici e delle lotte di Atene, Sparta, Siracusa, Roma e Cartagine.
La redazione di Terra Incognita ringrazia Ignazio Burgio ed il sito di Catania Cultura per la concessione dell’articolo.