Don Giuseppe Puglisi: la forza del garbo

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La storia del prete ucciso dalla mafia e beatificato lo scorso giugno da Papa Benedetto XVI

di Fabio Mancini

Chissà se esiste una relazione del tutto trascendente fra persone tra loro sconosciute, vissute in luoghi e in epoche differenti, ma accumunate dal coraggio e segnate dal medesimo destino?
Cosa hanno in comune il vescovo salvadoregno Óscar Arnulfo Romero e il sacerdote palermitano don Giuseppe Puglisi?
Entrambi furono assassinati, in virtù della loro testimonianza: Óscar Arnulfo Romero fu trucidato con una pallottola che gli recise la vena giugulare, mentre stava elevando l’ostia; Giuseppe Puglisi fu soppresso con un colpo di pistola alla nuca, mentre stava rientrando nella propria abitazione.
Con atteggiamento profetico il vescovo salvadoregno annunciava: “Un vescovo potrà morire, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non morirà mai”.
E come non estendere tale formulazione anche a don Puglisi e a tutti i martiri della Chiesa? Può una pallottola mettere a tacere la voce univoca della Comunità cristiana?
Presto Don Giuseppe sarà beatificato per poi essere elevato all’onore degli altari come primo martire della mafia, deceduto in odio alla fede. La cronaca nera rilevava che il 15 settembre 1993 il corpo di don Giuseppe giaceva a terra, privo di vita. 3P (acronimo delle iniziali Padre Pino Puglisi) veniva chiamato così dai suoi parrocchiani, terminava la sua avventura terrena il giorno del suo 56° compleanno.
Una strana coincidenza … eppure un altro elemento conferisce alla vicenda un significato un po’ particolare: il giorno dell’omicidio don Puglisi indossava un clergyman, anziché la solita camicia a scacchi. A qualche parrocchiano che glielo aveva fatto notare, don Giuseppe aveva spiegato che quel giorno doveva celebrare più matrimoni. A me piace pensare che il Signore lo abbia chiamato a sé, abbigliato con il suo abito migliore, in vista dell’imminente unione mistica con quell’anima devota.
Forse qualcuno potrebbe chiedersi: qual è il confine tra il dovere deontologico e il valore aggiunto della santità? Perché la mafia ha inviato un commando composto da cinque tra i migliori killer di Cosa Nostra per eliminare un prete mite e disarmato? E’ evidente che la minaccia apportata da don Puglisi non poteva essere militare, ma di altra natura.
Nato nel 1937 a Palermo e vissuto nelle borgate limitrofe al capoluogo siciliano, don Giuseppe conosceva il linguaggio, gli usi e la mentalità isolana, ma ciò non l’ha preservato da una morte precoce e feroce. Poteva essere evitata una fine simile? Beh, se il parroco della parrocchia di San Gaetano, situata nel quartiere Brancaccio, avesse chiesto una scorta,
oppure un trasferimento presso un’altra diocesi, forse sì. Ma tal punto don Puglisi doveva arrivare? A me sembrerebbe una resa. Agli occhi di Cosa Nostra, i torti di don Giuseppe Puglisi erano tanti. Anzi, troppi!
In una borgata priva di scuola media, di asilo nido, di consultorio o di qualsiasi struttura pubblica, quale era il Brancaccio degli anni 80’ dove tre quarti della popolazione era costituita da casalinghe e per la rimanente parte da pensionati e da bambini, molti fanciulli cadevano vittime della prostituzione e della droga, mentre tanti subivano il fascino “dell’uomo d’ onore” e del suo mito.
All’età di 10 anni già si entrava nei ranghi di Cosa Nostra e le alternative erano il lavoro di scaricamento delle casse di frutta o di pesce al mercato e la raccolta e vendita di stracci per le strade. Una volta un bambino che frequentava il corso per la prima comunione disse a don Giuseppe che era costretto ad abbandonare la catechesi, perché doveva andare a rubare. Don Puglisi chiama da Godrano (dove era stato parroco dal 70’ al 78’) Agostina Aiello e i giovani universitari della FUCI, le Missionarie del Vangelo da Palermo, Lia Cerrito, amica e collaboratrice di vecchia data, suor Carolina Iavazzo e le suore sorelle dei poveri di Santa Caterina da Siena. Con loro, il prete tenta di costruire un gruppo affiatato, al fine di diffondere un forse senso comunitario e sconfiggere in tal modo la cultura mafiosa dei mammasantissima.
Nascono i Cenacoli, incontri di piccoli gruppi di persone che pregano e leggono il Vangelo nelle proprie abitazioni, i ritiri spirituali, il centro di accoglienza per le famiglie più povere, il centro Padre nostro, la benedizione delle case, le gite, le gare sportive per le vie della borgata. I più vecchi e le vedove pur rimanendo nella sofferenza, immancabilmente ricevono le visite del loro parroco. Il deserto finalmente si anima di vita e speranza … Cosa Nostra che controlla il territorio non può permettere però che un prete di periferia abbia tale e tanta libertà interiore e d’azione. Pertanto i suoi affiliati credo che abbiano fatto la seguente riflessione: “Costui ha avuto la sfrontatezza di tentare di convertire le nostre donne, vuole di istruire i nostri figli, non ha accettato il denaro per i fuochi di artificio della festa patronale, non ha chiamato la nostra ditta referente per i lavori di restauro della parrocchia, ci ha messo in imbarazzo pubblicamente, si è rifiutato di indirizzare il voto dei parrocchiani verso i nostri referenti politici e ogni giorno costui acquista sempre una maggiore fiducia agli occhi della gente comune, mentre il rispetto e l’ammirazione spetterebbe a noi soltanto”.
In virtù della sua azione pastorale don Giuseppe Puglisi riceve una serie di avvertimenti: una volta un ragazzo della parrocchia viene fermato sul motorino, picchiato e minacciato, a tre giovani facenti parte dell’intercondominio vengono bruciate le porte di casa, il furgone degli operai che portava il materiale per il restauro della parrocchia viene dato alle fiamme con alcune bombe molotov lanciate in corsa da due giovani su una moto, una volta don Giuseppe trova le ruote dell’auto bucate, un’altra si presenta in parrocchia con un labbro ferito.
Ciononostante don Puglisi è un uomo sereno e gioioso, egli ripete che: “il cristiano è un uomo felice”. E’ un siciliano, pertanto sa cos’è la mafia e per dare luce a quel mondo fatto di tenebra e di violenza, ironicamente scrive il “Padre nostro del picciotto” che di seguito riporto:

“Padrino mio e della nostra famiglia,
tu sei uomo d’onore e di valore,
Il tuo nome lo devi fare rispettare
e tutti quanti ti dobbiamo obbedire:
quello che dici, ognuno lo deve fare
perché è legge se non vuole morire.
Tu ci sei padre che ci da pane
pane e lavoro e non ti tiri indietro
di ripulire un po’ chi possiede
perché sai che i picciotti devono mangiare.
Chi sbaglia lo sappiamo, deve pagare:
non perdonare, altrimenti sei infame
ed è infame chi parla e fa la spia;
questa è la legge di questa compagnia!
Mi raccomando a te, padrino mio,
liberami dagli sbirri a dalla questura
libera me e tutti i tuoi amici.
E sempre sarà così”.

A quanti definivano don Giuseppe Puglisi un prete antimafia, lui rispondeva che: “qui non dobbiamo fare pastorale antimafia, dobbiamo fare pastorale del Vangelo”. La sua è una testimonianza intelligente e semplice, senza complessi
di inferiorità.
Grazie alla deposizione processuale dell’omicida, Salvatore Grigoli, abbiamo potuto conoscere gli ultimi istanti di 3P. “Gaspare Spatuzza si avvicinò a don Giuseppe e piano gli disse: “Padre, questa è una rapina”. Lui si girò, lo guardò, sorrise, poi, aggiunse:”Me l’aspettavo”. Poi il colpo alla nuca, sparato da Salvatore Grigoli.
Ai giovani don Puglisi raccomandava: “Si, ma verso dove?” Anch’io mi chiedo: verso dove? Forse don Giuseppe Puglisi e i martiri della fede, sapranno indicarmi e indicarci la strada…